Mattarella, l'orchestra e i rumori di fondo
25 aprile, primo maggio e ora 2 giugno. Feste senza festa, senza fronzoli, apparati, gite e scampagnate, quest'anno. Ricorrenze per pensare.
Questa Festa della Repubblica si è aperta con un concerto nei giardini del Quirinale. Unico spettatore, il Presidente Mattarella. Un uomo solo che rappresenta tutto il Paese e lo rappresenta seduto davanti a dei musicisti che tornano al lavoro, all'arte. Gli unici applausi sono i loro, quelli dei professori dell'Orchestra dell'Opera di Roma diretti da Gatti, per le parole del Presidente che rivolge il pensiero alle vittime della pandemia. Persone, non numeri, persone come quelle che ora suonano Mozart, Pärt, Vivaldi, Puccini, Webern e Bach. Niente di retorico, nei giardini del Quirinale, ma un simbolo, un segno: il paese e la musica, l'immagine dell'arte e degli artisti nel primo abbraccio di questo settantaquattresimo compleanno della Repubblica. Mattarella con gli archi dell'Opera di Roma, Mattarella con Mozart, Pärt, Vivaldi, Puccini, Webern e Bach: dopo tante parole sull'importanza sulla musica, l'arte, gli artisti, la cultura, forse basterebbe questa sintesi.
Poi, c'è il rovescio della medaglia. Come dietro a Mattarella al Concerto, a Mattarella a Roma e a Codogno, alla dignità e alla nobiltà dell'uomo solo che rappresenta tutti, si agitano melme di assembramenti populisti, così fra le istanze di un'orgogliosa onestà, di una ripresa senza compromessi, di fronte al sacrosanto sdegno per le scorrettezze giunte sui tavoli degli inquirenti, ai nodi dei problemi amministrativi e contrattuali che vengono al pettine, c'è chi insinua germi pericolosi da cui la storia dovrebbe averci già messi in guardia. Sono i germi del nazionalismo, dell'autarchia, del pernicioso "prima gli italiani" che per qualcuno diventa "prima i cantanti italiani", risposta banalizzata e sbagliata ad altri problemi. Ma additare come nemico il cognome poco familiare, la fisionomia esotica è una facile scappatoia che elude il problema reale, permettendo ai disonesti di prosperare indisurbati, mentre insinua odi, ignoranze, sterilizza lo scambio e il dialogo che sono alla base dell'arte.
Invece di contare quanti artisti in una stagione hanno passaporto italiano o meno, potrebbe essere più giusto andare a confrontare quanti artisti avrebbero dovuto lavorare in spettacoli cancellati per la pandemia e quanti di loro sono stati reintegrati nelle programmazioni future. E fra quelli che hanno recuperato o meno i contatti, magari, andare a controllare chi appartiene all'una o all'altra agenzia. Più utile che inventare una contrapposizione italiani / stranieri (per coerenza i nostri connazionali dovrebbero rifiutare contratti oltre confine?) non sarebbe forse badare alla forma dei contratti e alla loro tutela? Perché non importa la nazionalità: importa il valore dell'artista, importa che sia rispettato come persona e lavoratore, importa l'onestà dell'agente o del sovrintendente o del direttore artistico, che deve rispettare pubblico e artisti.
Per il resto, se l'opera fosse rimasta affare gelosamente nazionale e autarchico, sarebbe rimasta ben poca cosa, sarebbe avvizzita presto fra corti e accademie. Invece ha cominciato presto, prestissimo a muoversi per l'Europa e per il mondo, a raccogliere stimoli diversi, ad attirare l'attenzione di drammaturghi, compositori, cantanti, realizzatori di spettacoli, a mettere in moto una rete fittissima di scambi di uomini e idee. E, oggi, non dovremmo che essere orgogliosi al pensiero che dalle feste di corte dei signori fiorentini nascono ancor oggi nuove creazioni di autori australiani, cinesi, anglosassoni, che musicisti italiani si esibiscono a Sidney e New York mentre giovani da ogni paese si innamorano della lingua italiana e dell'opera vengono a studiarla nel nostro paese per poi stabilirsi qui, oppure tornare a viaggiare portando con sé questo tesoro immateriale. Davvero a qualcuno importa guardare al passaporto di un artista e non soltanto al suo valore e alla sua onestà? Non ci ricordiamo che già altre volte, in momenti di crisi, il disagio e il malcontento hanno trovato sfogo contro l'altro, un nemico, un capro espiatorio che spianasse la strada alla propaganda di qualche torbida figura, che distraesse l'attenzione dalle responsabilità autentiche, dalla risoluzione dei problemi, dalla creazione di nuovi progetti.
Guardare al passaporto è un primo passo, la storia lo insegna, per creare muri e deviare l'attenzione dai problemi autentici ai pregiudizi ciechi. La cultura è abbastanza forte per non avere bisogno di confini. Anzi, sono proprio i confini a renderla fragile e trasformarla in un pretesto.
Mattarella ci rappresenta in un giardino con un'orchestra, con Mozart, Pärt, Vivaldi, Puccini, Webern e Bach. Non facciamo che il brutto rumore di fondo salga a disturbare l'immagine ideale di un Paese che si raccogli di fronte a un'arte che è di tutta l'umanità.