Punti di (ri)partenza
Il concerto del due giugno con gli archi dell'Opera di Roma. Il Requiem di Donizetti da Bergamo. Rigoletto dal Circo Massimo. Tre dirette TV che scandiscono la voglia di rinascere, le energie della ripresa, il ritorno alla vita e lo sguardo al futuro. Non ci si illude che siano tutte rose e fiori, che i problemi della cultura, delle arti, dello spettacolo siano spariti d'incanto. Però non si può negare un valore simbolico in questa centralità della musica (e dell'opera) nel reagire alla tragedia. Di più, là dove la complessità, la fisicità dello spettacolo fatto di fiato e di contatto sembrava uno scoglio insormontabile, ecco che l'opera dimostra quanto potenti siano le sue risorse, per l'ennesima volta si adatta e risorge in condizioni avverse.
Per me, nulla di più bello. E se talora mi guardo stupita pensando di aver dedicato la mia vita a "dell'aria che vola", in momenti come questi trovo la risposta e la conferma, sono felice.
Sono stata felice, commossa, nel vedere questo Rigoletto da Roma, un Rigoletto che vince ogni sfida, riesce ad andare comunque in scena senza rinunciare a nessuna delle componenti fondamentali (teatro e canto, dramma e musica) seppur rimodulate per rispettare le distanze ricorrendo (come è naturale che sia, a meno di non esser Amish) alla tecnologia.
Certo, se non è il caso di pronunciarsi nel merito di un'esecuzione tradizionale trasmessa per radio o TV, ancora meno lo è se lo spettacolo si dà all'aperto con l'orchestra e i cantanti sparpagliati per urgenze sanitarie. Tuttavia due parole si possono dire, almeno per rispetto al lavoro degli interpreti. Personalmente non sono mai stata una grande fan di Daniele Gatti, ricordo, sì, un bellissimo Macbeth a Bologna, ma anche tante serate che mi hanno lasciata a dir poco perplessa. Anche qui, effettivamente, non sono stata del tutto persuasa da alcune scelte dinamiche e agogiche, ma si tratta di elementi che è opportuno valutare solo dal vivo (o, semmai in incisioni realizzate e ascoltate in condizioni ottimali). D'altro canto, Gatti ha diretto con scrupolosa attenzione l'edizione critica dell'opera, il che non significa solo rinunciare all'esibizione di qualche corona acuta, ma soprattutto riscoprire che, sotto quegli effetti plateali, l'opera verdiana è un capolavoro ancora maggiore di quanto si sia avvezzi ad ascoltare, ricca di rimandi sottilissimi, di piani, sfumature, rimandi tematici che costruiscono una drammaturgia musicale tuttora sconcertante. Grazie, dunque, a Gatti per averci fatto ascoltare un Rigoletto sussurrato, inquietante, pieno di tensione autentica, perturbante, mai gridata.
Poi, certo, si può sempre discutere sull'esecuzione, ma era la prima opera data in scena in Italia dopo la pandemia e l'evento è stato celebrato con tutti gli onori, diretta TV e presidente della Repubblica in platea. Ci sarà tempo per fare i Beckmesser, perché di opere ne vedremo ancora molte e date - evviva! - nei modi più diversi. Ora festeggiamo la ripresa dell'opera, la sua vitalità, la sua capacità di rigenerarsi. E festeggiamo anche tante pieghe del genio verdiano che Daniele Gatti ha voluto portare in evidenza rinunciando a facili e rodati effetti.
E un ottimo lavoro ha fatto Damiano Michieletto, che è riuscito a sua volta a portare la drammaturgia di Rigoletto nei confini imposti dalle norme di sicurezza. Alla fine, quello che abbiamo visto non è parso tanto un "Rigoletto ai tempi del Covid", un "Rigoletto con distanziamento sociale", ma un vero e proprio Rigoletto con tutti i caratteri e le azioni a loro posto: un potente depravato con la sua piccola corte, il suo tirapiedi che è in realtà un poveraccio diviso fra una vita immorale e l'amore per una figlia che vorrebbe preservare da tutto quell'orrore e che invece si innamora proprio del suo padrone. Chi lamenta l'assenza di chincaglieria rinascimentale confonde purtroppo la decorazione con la sostanza, e Verdi era indubbiamente uomo di sostanza poco amante dei fronzoli. Amava la gobba di Rigoletto, per lui era imprescindibile (e infatti Michieletto ci mostra la cifosi del protagonista), ma anche questa non è un mero ammennicolo scenico. No. Fare cantare un gobbo significava per Verdi sfidare lo scandalo, rompere le convenzioni, elevare a eroe non Achille ma Tersite. Rigoletto è, deve essere un personaggio ripugnante, diverso, ferito, un freak, oggetto di discriminazione e derisione. Un personaggio che potrebbe stare in un'opera buffa, o essere senza meno un malvagio. Verdi vuole questo per mostrare il contrasto fra l'anima e l'aspetto, e in quella stessa anima il dibattersi di teneri, puri affetti, ossessioni, ideali, rancori. Questo lo incanta del lavoro di Hugo, e d'altra parte Triboulet è parente prossimo di Quasimodo, che nel romanzo non è esattamente cuccioloso come nel (bel) film Disney in cui canta pure con la voce di Massimo Ranieri. Dunque, in fondo, per rispettare la sostanza della volontà verdiana, non sarebbe poi così necessaria la gobba: sarebbe necessario non fare di Rigoletto un "normale" nell'ottica estetica e sociale della corte. Ma Rigoletto la gobba la mette eccome perché il suo è, in fondo, un Rigoletto pressoché tradizionale, che non altera i nodi della drammaturgia, i caratteri e i rapporti, ma racconta la vicenda con diversi piano narrativi ma sostanziale, chiara linearità. Un momento, comunque, c'è in cui Michieletto tira fuori la zampata che lascia il segno: Gilda non si vota al sacrificio, ma impugna una pistola con l'evidente intenzione di difendere il suo amore affrontando il sicario. Gilda, la pura, candida Gilda idolatrata dal padre è cresciuta, il suo eroismo finale (anche la scrittura vocale cambia e si fa più lirica e centrale) da passivo qui è visto come attivo. Però, resta una sorte di suicidio, come se più della morte fisica contasse quella morale: Gilda è stata corrotta dal mondo del Duca e non tanto perché ha conosciuto il sesso, ma perché ha perso la sua anima, è diventata una potenziale omicida. Il candore è offuscato, come temeva Rigoletto, è precipitata nel fango immorale su cui regna il Duca. Con Sparafucile ha, inevitabilmente, la peggio, la morte la rende candida come una sposa (dopotutto è morta per amore), ma quel che conta, che compie la maledizione, è che Gilda si è davvero perduta amando il Duca: è diventata una donna forte, ma ha preso la strada sbagliata.
Così, abbiamo il ritorno dell'opera, l'abbiamo vista rialzarsi nelle difficoltà e affermarsi anche a dispetto di ogni restrizione. Abbiamo ricordato che straordinario, geniale, eterno drammaturgo musicale sia Verdi, abbiamo anche avuto una sorprendente reinvenzione, originale ma non campata per aria, di un personaggio che si usava liquidare fra angelici languori. Non male come punto di (ri) partenza. L'opera è viva, più viva che mai, pronta a mille nuove riletture