Il mestiere delle arti
Io non voglio contestare le norme, lockdown, semilockdown, coprifuoco. Non è il mio mestiere studiare virus ed epidemie, elaborare strategie sanitarie, economiche, sociali, stabilire i provvedimenti amministrativi più opportuni. Non è il mio mestiere, posso avere impressioni, opinioni, ma non competenze sufficienti.
Io non voglio contestare norme e provvedimenti che stanno prendendo sempre più paesi, perché la priorità ora è salvaguardare la salute e far fronte alla pandemia. Persone sono morte e continuano a morire, persone hanno sofferto e continuano a soffrire: non lo dimentico e non pretendo di conoscere le soluzioni giuste. Non è il mio mestiere, ascolto chi ha le competenze.
Il mio mestiere è un altro. Scrivo di musica e cerco di farlo nel modo migliore. È un lavoro in cui credo e che amo, perché sono convinta che lo studio, la riflessione, il dibattito sull'arte siano fondamentali. È un lavoro che ho scelto per passione e non riesco a immaginarmi che facendo ciò che faccio.
Quando sono tornata a lavorare sul campo – le professioni intellettuali o artistiche non conoscono pause, perché lo studio non può fermarsi – ho visto gli sforzi enormi compiuti dalle istituzioni musicali per permettere al pubblico di assistere in sicurezza a opere e concerti. Ho constatato l'impegno economico, strutturale, i controlli rigorosi, il distanziamento, ho osservato tanti lavoratori, non solo le maschere, andare oltre le loro mansioni consuete per misurare temperature, verificare identità, controllare il rispetto dei posti assegnati, l'igienizzazione delle mani, le mascherine correttamente indossate. Senza un attimo di tregua. Però, purtroppo, non è detto che tutto questo basti, perché il teatro non è una bolla isolata dal mondo: anzi, il suo senso, il suo valore maggiore è l'integrazione con il tessuto sociale. Il teatro è un fulcro della comunità ed è indissolubilmente legato a una serie di contatti e attività che costituiscono anche il – notevole – indotto economico dello spettacolo dal vivo. Per paradosso, crudele paradosso dell'emergenza sanitaria, i contatti umani, le attività, il movimento che ruotano intorno al teatro da ricchezza spirituale e materiale diventano anche fattore di rischio. Per quanto il lavoro sia regolamentato con scrupolo non si può evitare che le persone poi abbiano contatti fuori dal teatro e possano portare fatalmente il virus fra i colleghi. Abbiamo vissuto le ultime settimane in un continuo girotondo di recite cancellate, programmi trasformati, cast variati anche all'ultimo momento, alla notizia di un tampone positivo.
C'è poco da discutere. Non dimentichiamo quel che è successo pochi mesi fa, non dimentichiamo i numeri di questi giorni e le raccomandazioni dei medici (quelli veri, non quelli che cavalcano i desideri dell'opinione pubblica per un quarto d'ora di celebrità e un po' di reazioni e condivisioni social).
Però, c'è bisogno di affermare il principio che il lavoro non è solo quello che “produce cose”, non è solo quello che “serve”. Che scrivere, insegnare, suonare, cantare, realizzare una regia, progettare scene e costumi, ideare una stagione, un festival, uno spettacolo siano lavori a tutti gli effetti. Ora, in un momento di crisi, vengo al pettine problemi antichi, di principio, nodi strutturali e siamo obbligati a riflettere, se dalla crisi vogliamo uscire.
Il problema non sono i provvedimenti d'emergenza, che sono per definizione provvisori. L'emergenza è il virus. Il problema pregresso è di carattere culturale e va di pari passo con la svalutazione diffusa della professionalità artistica e intellettuale.
La diffusione stessa del virus trova uno straordinario alleato in fake news, atteggiamenti antiscientifici, no-vax, no-mask, teorie del complotto, analfabetismo funzionale, negazionismi di varia entità. La diffusione del virus causa ed esaspera problemi sociali e in questi proprio fake news, antiscienza, complotti istigano e alimentano tensioni, derive estremiste e violente. Un meccanismo che mi preoccupa molto e che mi ricorda in maniera in maniera inquietante i tempi dell'influenza spagnola, cent'anni fa, fra populismi, propagande, teorie della razza, protocolli di Sion, crisi economica, ribellione e ricerca dell'uomo forte da seguire e del capro espiatorio su cui scagliarsi.
Lasciare soli i professionisti dell'arte e della cultura potrebbe abbandonarli in una guerra fra poveri, potrebbe scatenare la frustrazione di una dignità non riconosciuta.
Io lavoro nella musica, vedo da vicino lavoratori del mio ambito con cui sono solidale, ma sono e voglio essere solidale anche con i ristoratori, i commessi, gli sceneggiatori, gli attori, i tecnici, gli operai, i grafici, i commercianti, i rider, i corrieri, gli albergatori, i taxisti, gli insegnanti... e con il personale sanitario, con chi ha sofferto e con chi soffre.
Homo sum, humani nihil a me alienum puto. Sono un essere umano, nulla di umano mi è estraneo.
Questo ce lo dice la storia, la letteratura, la cultura classica.
La scuola, l'arte, la cultura sono le basi della società civile, della coscienza, della consapevolezza, l'antidoto alle derive che diffondono il virus e inaspriscono le tensioni. La cultura alimenta lo spirito critico, la capacità di riconoscere e rispettare le vere competenze, di maturare atteggiamenti responsabili e costruttivi, di reagire con razionalità anche quando sarebbe facile scivolare nello sconforto, nello sfogo istintivo, nella banalità del male.
Non bisogna cambiare le restrizioni, semmai bisogna rivedere sostegni, indennizzi, contratti, ma alla base sta il concetto fondamentale: bisogna cambiare mentalità. Bisogna capire che il lavoro nella formazione, nella ricerca, nell'arte, nella cultura ha un valore, ha una dignità, è fondamentale per l'intera società. Alla sopravvivenza basta pochissimo, non molto oltre all'acqua potabile. Per vivere, invece, all'uomo “animale sociale” servono la cultura e la civiltà.
Il lavoro artistico e intellettuale deve essere riconosciuto, nella normativa come nel sentire comune, ma anche chi lavora intorno alle arti e alla cultura deve fare la sua parte, assumersi questa responsabilità, distinguere al suo interno competenze e valori, dimostrare coscienza del bene comune. Non omologarsi, ma sapersi unire dialetticamente su principi fondamentali: la concordia discors di Orazio volentieri ripresa nella storia delle teorie musicali.
Utopia? Forse, ma è inseguendo le utopie che si realizza il progresso.