Parole, non mimose
Se devo pensare a cosa significhi per me essere una donna, mi vengono in mente principalmente questioni anatomiche. Senz'altro perché ho avuto la fortuna di un'identità di genere che corrisponde al mio corredo cromosomico, quindi mi sono trovata con un corpo che è un dato di fatto sul quale non ho mai dovuto nemmeno interrogarmi. Io sono io e l'essere donna e non uomo significa dovermi occupare del mio ciclo mestruale e non della crescita della barba o della salute della mia prostata. Significa non poter indossare mutande maschili e trovar comodo, perfino con le mie misure scarse, usare il reggiseno. Significa far la pipi (a Brescia lo diciamo così, parola piana e non tronca) preferibilmente seduta.
Naturalmente, questa mia percezione non può aver nulla a che vedere con quella di chi non si trova nella mia stessa condizione fisica e mentale, tuttavia non pretendo certo di parlare di identità. Vorrei parlare di parità e, in tal senso, non mi verrebbe da dare alla mia identità di genere un'influenza sulla mia vita che vada oltre alle questioni strettamente anatomiche. Semmai, giusto nella sfera privata la cosa fa sì che possa avere relazioni con maschi eterosessuali, mentre se fossi un uomo ne avrei con maschi omosessuali.
Per il resto, ci saranno professionisti titolari per discettarne nel dettaglio, ma, certo, viviamo immersi in una costruzione culturale, in una rete di convenzioni che, per certi aspetti, si può anche accettare benissimo, dalla quale non si può comunque prescindere. Parlo anche di questioni meramente estetiche, per cui (al di là dell'intimo che si modella necessariamente su forme diverse) abbiamo una serie di abiti, calzature, acconciature e trucco che siamo abituati ad afferire alle categorie del maschile o del femminile. Se anche decidessi di non truccarmi, tagliarmi i capelli, vestirmi “da uomo” (o in modo “neutro”, o “fluido”, o “classico” o “queer”) sarebbe comunque una scelta fatta in relazione a quel codice culturale.
Dato che la mia mente, i miei ormoni e i miei cromosomi concordano su ciò che la società in cui sono nata si aspetta da me, per fortuna non ho dovuto preoccuparmi troppo di definire e affermare la mia identità in tal senso. Tuttavia continuo a interrogarmi su quello che cataloghiamo come “maschile” e “femminile” e non credo proprio che le due categorie debbano essere rigoroso appannaggio del “maschio” e della “femmina” (idee, anche queste, piuttosto astratte, nell'infinita varietà di sfumature con cui si manifestano).
Alle ripercussioni professionali e sociali del mio genere non ho mai pensato più di tanto. Sono stata abituata a considerare le persone e non quel che hanno nelle mutande o preferiscono avere nel letto.
Eppure, spesso i fatti costringono a pensare.
Quando ti vengono poste domande sull'essere donna nel tuo lavoro, significa che un problema c'è, altrimenti a nessuno salterebbe in mente di fare una domanda simile.
Quando noti che per molte persone è del tutto normale rivolgersi a un uomo con un titolo di studio o professionale (anche se inappropriato: quanti “dottori” ho visto che non hanno dato nemmeno un esame universitario!) mentre le donne sono tutte “signora” e “signorina” significa che una disparità di percezione e trattamento c'è. E guai a farlo notare: si passa per superbe, spocchiose, formali, non per persone che semplicemente ambirebbero a una considerazione in base al percorso di lavoro e formazione.
Quando noti che alcune professioni che in italiano hanno la loro regolare concordanza anche al femminile vengono impostate di base sempre al maschile, come se la donna fosse un'eccezione il cui valore è riconosciuto se si omologa alla predominanza dell'uomo, c'è un problema e c'è se non si riconosce serenamente che esistono (nella pratica e nella grammatica) anche la maestra del coro, la direttrice artistica, la direttrice d'orchestra, la sovrintendente, la camionista, la senatrice, la commessa, la dirigente...
Quando non si è libere di parlare di una donna per quel che si ritiene che valga senza che si tirino in ballo questioni di “solidarietà femminile”, “invidia”, “misoginia” e altre amenità comode per eludere argomentazioni serie, c'è un problema.
Tante volte, si sente dire che ci si attacca a questioni di poco conto, alle parole e non alla sostanza. Ma le parole sono sostanza, perché sono il modo in cui il pensiero si esprime. Le parole contano, perché come parliamo pensiamo e come pensiamo agiamo. Un buon linguaggio diventa anche buona sostanza nel quotidiano, perché parlar bene significa avere consapevolezza di ciò che si dice, conoscere il peso e l'importanza dell'uso della parola. Sappiamo che esistono, in una lingua dei generi che possono riferirsi a persone (la guardia che può essere uomo o donna; il soprano che può essere uomo o donna; il giornalista e la giornalista; il pittore o la pittrice) o, per convenzione, a oggetti (la sedia, lo sgabello, la tazza, il bicchiere...), ma questo non implica una gerarchia di valore. Sappiamo, anche, che con le parole si può scherzare, giocare, purché si sia in grado di misurare l'ironia, il sarcasmo, la satira al contesto e agli interlocutori, perché non diventino offesa, mancanza di rispetto e aggressione, perché si abbia sempre il controllo di ciò che si dice e si pensa.
In un mondo in cui dobbiamo ancora contare le quote rosa, interrogarci sul numero di donne che ricoprono un determinato ruolo, in cui si sente ancora parlare di lavori “maschili” o “femminili”, in cui tante donne mi raccontano di avere, a parità di importanza e condizioni, compensi minori degli uomini, in cui discutiamo ancora se si possa o meno dire e scrivere direttrice di una donna che dirige qualcosa, allora forse siamo ancora lontani da questa libertà. Forse si dovrebbe partire dal pensiero, dalle parole, che non sono “aria che vola” e “vento e suono che nulla dinota”, ma qualcosa da capire e su cui confrontarsi, qualcosa che può anche cambiare, ma non per una contrapposizione di principi astratti, bensì per il ragionamento di chi le usa.